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Riflessione sull’(in)utilità dei tecnici sulla sicurezza sul lavoro

11/04/2020

Nota introduttiva all’articolo: quanto segue è frutto di protratte riflessioni correlate all’attuale periodo di quarantena imposto dall’epidemia di Covid-19. Non ha, per nessun motivo, la presunzione di essere un articolo di tipo “tecnico” o esaustivo ma, semplicemente, una riflessione generalizzata su quanto quotidianamente vediamo.

Alla luce dei fatti avvenuti in questo triste periodo una cosa mi appare assolutamente chiara: le professioni tecniche legate alla sicurezza sul lavoro sono, di fatto, assolutamente inutili ed accessorie.

Si sarebbe potuto pensare che, in tempi di difficoltà e crisi quale l’attuale la gestione di una situazione di emergenza inaspettata avrebbe dovuto coinvolgere, in maniera particolarmente intensa, chi svolge la nostra professione al fine di valutare ed operare soluzioni utili a limitare rischi e problemi per chiunque svolga un’attività lavorativa.

Ebbene, riflettiamoci.

Il primo grosso problema nato tra i tecnici è stato: DVR da rifare/rivedere o no? Indipendentemente dalla posizione assunta il dubbio rimasto è stato: finalità del dubbio a monte?

Se davvero siamo onesti forse sarebbe bene che ricordassimo che il problema non ha davvero nulla a che fare con la reale sicurezza dei lavoratori ma, piuttosto, con l’obbligo di un adempimento piuttosto formale per evitare possibili sanzioni. Nessun tecnico che abbia un reale contatto con la realtà dei fatti può dire che la questione sia di primaria importanza per il lavoratore medio (la maggior parte) o per il datore di lavoro (preoccupato, per lo più giustamente, più di evitare possibili sanzioni che di trovare un corretto protocollo d’azione).

Secondo problema: la redazione di protocolli e procedure per mantenere operative le aziende.

Anche qui: fiumi di inchiostro, variazioni, sforzi per far funzionare la “teoria operativa” con la “teoria normativa” ma, realmente, a livello pratico le aziende richiedevano protocolli che conciliassero i due aspetti ma nei cantieri così come nelle officine, non appena il consulente o il tecnico con ruoli di controllo/verifica della sicurezza si volta le cose procedono pressappoco come al solito. Abbiamo, giustamente, più o meno tutti, creato istruzioni operative corrette su carta che prevedano opportuni spazi, igienizzazioni, uso corretto di DPI, ecc… ma la realtà dei fatti è, come sempre, una cosa differente. Gli sazi degli spogliatoi ridotti, le operazioni di cantiere che difficilmente possono avvenire nel rispetto delle “distanze di sicurezza” e delle opportune precauzioni, le igienizzazioni che avvengono in maniera che definire casuale è un eufemismo; i DPI che, ammesso di riuscire a reperirli, vengono utilizzati nel modo più “personale” possibile.

I DPI: altra questione irrisolta. Quali quelli corretti? Quando sono DPI? Quando sono presidi sanitari? Queste e mille altre questioni si sono venute a creare e, oltre ad autorevoli e correttissimi pareri, ne abbiamo sentite di tutti i colori; purtroppo anche tra noi tecnici.

Tra i non tecnici abbiamo visto di tutto: mascherine fatte con carta forno, con assorbenti, con vecchie federe, mutande ed indumenti vari e chi più ne ha più ne metta… Per non parlare delle procedure di “disinfezione” più creative (il tutto avvalorato da farmacisti, medici e, ahimè, società di consulenza per la sicurezza).

In merito uno degli aspetti più interessanti, se ci pensate che ben ci fa capire la pochezza di utilità della nostra professione, è stata la gestione dei DPI nel settore sanitario. L’intero settore (per lo più abbandonato a sé stesso) è stato, evidentemente, dichiarato, per via dell’emergenza in atto, estraneo ad ogni forma di applicazione delle basilari norme di sicurezza. Il risultato, di fatto, oltre ad una drammatica situazione operativa per quanto concerne gli operatori coinvolti, ha portato a dimostrare quanto la categoria degli addetti alla sicurezza sul lavoro (tecnici, RSPP, ASPP, formatori, ecc…) sia di fatto inutile. Ad oggi nelle case di cura, negli ospedali, e nelle strutture sanitarie in genere, si opera in  “emergenza” con leggi “speciali”.

Di fatto qualsiasi tecnico che svolga il nostro mestiere dovrebbe sapere che in questi ambienti l’eventualità di una epidemia deve essere considerata a priori. Deve esserci un piano di gestione delle emergenze adeguato, devono essere disposte procedure di gestione con scorte e formazioni idonee e molto altro. A quanto pare però, anche ammesso che tutto questo esista, si tratta semplicemente di carta. Nella realtà dei fatti la situazione è “corriamo ai ripari e navighiamo a vista” (non noi ma a questo punto il tutto passa in mano a “comitati tecnici” e “unità di crisi” composte da… da altri teorici che hanno più legami con il mondo politico/amministrativo che non con le realtà delle quali parlano)

Ma continuiamo: la formazione. Altra questione irrisolta. Di fatto per la sicurezza sul lavoro siamo “fermi”? No, sì, in certe regioni sì, in altre no… ma alla fine nessuno, se non noi che ce ne occupiamo, se ne da pena più di tanto. Se già in periodi “normali” la questione è un problema solamente di adempimento formale (provo forte tenerezza per quei colleghi che, ancora oggi, si stupiscono del potenziale cliente che chiede di “comprare” l’attestato) immaginiamoci oggi, considerando che neppure alle istituzioni interessa realmente di occuparsi del problema, anzi, proprio il problema non sussiste.

In fondo è corretto, di problemi ne esistono ben altri e più pressanti. I lavoratori (quelli che rimangono oggi operativi) di fatto non sentono la nostra mancanza e, sicuramente, non la sentono i datori di lavoro che hanno già il loro bel da fare per tentare di “tenere in piedi la baracca” tra pagamenti saltati e difficoltà di ogni genere.

Certo, di tanto in tanto, qualche imprenditore ci chiede se può riaprire l’attività o no (di fatto si presuppone che noi si sappia leggere e interpretare un decreto) ma, per lo più la nostra funzione è quella di “azzeccagarbugli”, di trovare la “gabola” perché: “Ingegnè, qui bisogna lavorare che altrimenti non si fattura!” Tranquillo amico imprenditore che tanto tu fatturi ma non è detto che di la qualcuno ti paghi!

In ogni caso pochissimi di noi, in questa fase di assoluta emergenza, sono stati o saranno utili a livello pratico nella gestione di una situazione così a rischio. Certo: non è nostro compito. Certo: non siamo virologi (quasi nessuno). Certo: non siamo medici. Certo: pochi di noi sono stati coinvolti nella gestione generale della situazione… già… quanti tecnici sono stati coinvolti, realmente, a livello istituzionale con le procedure di gestione per la sicurezza dei lavoratori? E quanti di quelli coinvolti hanno competenze reali (operative) negli ambiti dei quali parlano?

Di fatto, in generale, questa, insieme a mille altre piccole e grandi questioni irrisolte sulla nostra professione mi fanno propendere per l’idea che, in tempi di reale crisi e nei momenti in cui i problemi escono allo scoperto, la nostra attività è di fatto accessoria. La nostra categoria non è nient’altro che il frutto di una necessità burocratica.

Potremmo essere altro? Forse, ma non alle condizioni attuali. Quello che serve è arrivare ad un radicale cambio di mentalità che renda realmente la nostra attività obsoleta. Purtroppo sperare, in un paese di tuttologi come il nostro, in una presa di coscienza delle persone però è decisamente utopico. Ciò vuol dire che molti di noi continueranno semplicemente e felicemente ad esistere come teorici del nulla convinti di cambiare il mondo e, personalmente, continuerò a provare una profonda invidia per chi ha questa convinzione.